Sentenza shock per i marittimi imbarcati su yacht: in primo grado si impone l’Agenzia delle Entrate
La vicenda trae origine dalla notifica a un comandante di un avviso di accertamento per omessa dichiarazione dei redditi perché (secondo la tesi accusatoria) non aveva prestato attività a bordo della nave per un periodo di almeno 183 giorni. Nonostante un contratto a tempo indeterminato da 11 anni
Riceviamo e volentieri pubblichiamo dal capt. Andrea Segato (comandante del super yacht Miamaa) un commento a una sentenza di primo grado pronunciata dalla giustizia tributaria (leggi qui) a seguito di un accertamento dell’Agenzia delle Entrate di Lucca che gli ha contestato l’omessa dichiarazione dei redditi perché secondo la tesi non avrebbe prestato attività, a bordo della nave, per un periodo di almeno 183 giorni come prevede la legge n.88/2001. Nonostante il diretto interessato sia riuscito a produrre prove a suo favore ciò che emerge da questa vicenda è che, secondo l’Agenzia delle Entrate, il conteggio dei 183 giorni minimi da considerare per il computo dell’imbarco sarebbero solo quelli spesi effettivamente in mare. Dunque, ad esempio, non durante il rimessaggio a secco del super yacht o negli altri momenti per cui attività previste o comunque comprese durante il periodo di imbarco vedono il marittimo impegnato a terra. Un orientamento che il diretto interessato intende ovviamente contestare in secondo grado intendendo presentare appello contro questa sentenza.
I lavoratori marittimi sono tali solo se “van per mare”: breve commento alla sentenza n. 121/2023 della Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Lucca.
L’art. 5, comma 5, della legge n. 88/2001, sotto la rubrica “Disposizioni concernenti i marittimi imbarcati”, prevede che “Il comma 8-bis dell’articolo 48 del testo unico delle imposte sui redditi … introdotto dall’articolo 36, comma 1, della legge 21 novembre 2000, n. 342, deve interpretarsi nel senso che per i lavoratori marittimi italiani imbarcati su navi battenti bandiera estera, per i quali … non è applicabile il calcolo sulla base della retribuzione convenzionale, continua ad essere escluso dalla base imponibile fiscale il reddito derivante dall’attività prestata su tali navi per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di dodici mesi …”.
Per questo motivo, cioè per il fatto che, per l’anno 2016, sono stato imbarcato a bordo di una nave battente bandiera estera, ho escluso il reddito derivante dall’attività prestata come comandante dalla base imponibile Irpef. Nonostante ciò, cioè nonostante la ricorrenza delle condizioni previste dalla richiamata disposizione di legge (cioè essere lavoratore marittimo, imbarcato su nave battente bandiera estera dove ho prestato attività lavorativa per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco dei dodici mesi dell’anno 2016), l’Agenzia delle Entrate di Lucca mi ha notificato un avviso di accertamento per omessa dichiarazione dei redditi perché, a loro dire, non avrei prestato attività, a bordo della nave, per un periodo di almeno 183 giorni.
L’impostazione di fondo dell’accertamento dell’Agenzia delle Entrate, ad avviso mio e dei miei difensori, risulta sbagliato perché l’art. 5, c. 5, legge n. 88/2001 non prevede, assolutamente, che l’esclusione dalla base imponibile Irpef del mio stipendio sia legata all’attività di navigazione, considerata l’evidenza per cui il lavoro marittimo va ben oltre “lo stare in mare”: se così non fosse, coloro che sono arruolati su una nave in secca, smettono di essere marittimi?
A ciò va aggiunta una considerazione ulteriore, a dir poco pacifica: in qualità di lavoratore marittimo, cioè in qualità di lavoratore dipendente, ho diritto – per legge e per contratto – a godere di riposi, di ferie, di malattie e di permessi. In qualità di lavoratore dipendente, insomma, ho un orario di lavoro, un luogo dove svolgere le mie mansioni e il diritto al recupero delle festività e delle ferie quando non vengono utilizzate.
Se si sommano questi due principi pacifici, cioè che lavoratore marittimo non vuol dire “marinaio” e che al marittimo spettano, al pari degli altri lavoratori, riposi, ferie e similari, non capisco come sia possibile che l’Agenzia delle Entrate abbia ritenuto che, nel mio caso, non ricorressero le condizioni di cui all’art. 5, comma 5, legge n. 88/2001. Questo lo rilevo per un motivo alquanto semplice: già in sede di contraddittorio avevo dimostrato che, con i miei due imbarchi nel 2016, ero stato fisicamente “in mare” per 177 giorni a bordo di un’imbarcazione e 9 giorni a bordo di un’altra. Ciò determina un totale di 186 giorni in cui, effettivamente, sono stato “non sulla terra ferma”.
Anche volendo seguire l’assurda equazione “marittimo – marinaio”, nel 2016 già avevo superato i 183 giorni “a bordo” richiesti dall’Agenzia delle Entrate. Ma c’è un’altra cosa da dire, e che vorrei precisare per tutti coloro che possono trovarsi in questa condizione: ai giorni “di navigazione” vanno sommati, per determinare i 183 giorni, anche i giorni in cui il lavoro “marittimo” è stato “svolto a terra”, perché per esempio l’imbarcazione è in secca. E ancora – e soprattutto – ai giorni di lavoro “svolto” vanno sommati i giorni di riposo previsti dal contratto e i giorni di ferie, così come i giorni di permesso e altro. Non bisogna dimenticarsi, infatti, che ogni interessato dovrà vedere, in base al contratto, quanti giorni di lavoro deve prestare nell’interesse della nave, cioè per l’armatore, così dovrà avere riguardo a quanti giorni di ferie gli spettano durante l’anno. Lo ripeto, perché è importante: è la stessa Amministrazione finanziaria che, nella Circolare n. 207 del 16 novembre 2000 del Ministero delle Finanze, afferma che “Per l’effettivo conteggio dei giorni di permanenza dei lavoratori all’estero rilevano, in ogni caso nel computo dei 183 giorni il periodo di ferie, le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi indipendentemente dal luogo dove vengono trascorsi”.
Tale Circolare, come specificato anche nella sentenza che ha rigettato il mio ricorso, trova pacifica applicazione anche nel caso di lavoratori marittimi. A proposito della sentenza, ben si vede che la Corte di Giustizia Tributaria di Lucca ha ritenuto, errando, che per rientrare nell’ambito di applicazione della legge n. 88/2001 il lavoratore marittimo debba “concretamente navigare”. Tale requisito, come ho detto, non solo non è previsto dalla legge ma non è previsto nemmeno dalla prassi dell’Amministrazione finanziaria. Senza considerare, poi, che la sentenza non si è nemmeno preoccupata di specificare perché a me, in quanto lavoratore marittimo, non spettino, come invece spettano agli altri lavoratori, le ferie, i riposi e altro al fine di conteggiare quanti giorni ho lavorato in un anno.
In definitiva, cari amici, una rondine non fa primavera e sto già lavorando sull’appello avverso la sentenza di primo grado: nel conteggio dei giorni di attività marittima prestata in un anno si devono considerare, come chiarito dal Ministero, anche i giorni di riposo da contratto, le ferie e similari. Cosa che, dalla sentenza di primo grado, non è emersa.
Andrea Segato
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