Norberto Ferretti: “Una barca è fatta di tecnologia, ma vince il team” (VIDEO)
Il fondatore di Ferretti Group racconta la sua vita da armatore e di come il suo successo non sia dipeso solo dall’innovazione, ma dal lavoro di squadra. Dall’Offshore al mondo della nautica, l’importanza di un team affiatato è stata la chiave

“Correre in Offshore mi ha insegnato la capacità di lavorare insieme come una squadra”. È una delle frasi più importanti dell’intervista di SUPER YACHT 24 a Norberto Ferretti in occasione della visita al museo che ha realizzato a Cattolica (Rn). Classe 1946 e fondatore, insieme al fratello Alessandro, del gruppo che porta il suo nome, Ferretti è una figura di spicco nel mondo dello yachting mondiale. Dopo l’uscita dalla “sua” azienda, Norberto è rimasto nell’industria nautica e oggi collabora con Bellini Nautica, lo storico cantiere di Romano Bellini e dei figli Martina e Battista basato a Clusane d’Iseo (Bs), sul lago d’Iseo. Ancora oggi Ferretti è un armatore appassionato che ha creato un museo privato ricco di ricordi a Cattolica e trascorre i mesi caldi a Formentera, in Spagna, dove naviga in giornata a bordo di un prototipo molto speciale.
Che tipo di armatore è stato e come si è voluto?
“Ho iniziato come armatore ‘del lunedì’, andavo in Croazia a pescare con gli amici per vendere il pesce a Bologna. Poi sono passato alla vela e alle regate lunghe e quindi alla barca a motore dislocante. Quando abbiamo deciso di costruire la Navetta 26 erano tutti contrari, il dislocante era sparito ma ero convinto che fosse il modello adatto a chi vuole navigare a lungo”.
Andava in rada o in porto?
“L’ultimo anno che ho navigato con la Navetta ho fatto 60 giorni di rada senza mai toccare un porto. Le mie barche erano accessoriate per avere un’autonomia notevole. La nascita del dissalatore è stata una svolta, in barca il problema è solo l’acqua, se stai fermo di gasolio ne consumi poco. Ne avevo due da 100 litri/ora che alternavo ogni 12 ore”.
Quanti comandanti ha avuto nella sua vita?
“Solo due, entrambi italiani. Il primo ha lavorato con me per 9 anni, il secondo per 12. Il segreto è far scegliere l’equipaggio al comandante. Tanti armatori commettono invece l’errore di fare personalmente l’equipaggio, ma è un compito che spetta al comandante perché è lui che lo comanderà. L’armatore può al massimo scegliere la propria hostess”.
Come vive oggi la sua passione per il mare?
“Non vado più in crociera, ho un prototipo di Wally 48 e passo quattro mesi all’anno a Formentera, in Spagna uscendo in giornata con i miei amici”.
Se dovesse costruire una nuova barca cosa sceglierebbe?
“Rifarei una barca dislocante preferendo l’affidabilità e la sicurezza delle linee d’asse tradizionali, su barche grandi la perdita di spazio si sente meno rispetto ai modelli più piccoli”.
Come descrive il mondo degli armatori?
“Ho avuto la fortuna che i miei clienti erano tutti molto più ricchi di me, miliardari. Nonostante ciò, ricordo che dopo una festa, verso le tre di notte lanciai la proposta per un piatto di spaghetti aglio olio e peperoncino, la scelta logica sarebbe stata andare a bordo di chi aveva lo yacht più grande, che non ero io. Ma sapevo che a quell’ora sarebbe stata una richiesta impossibile da accettare per quell’armatore e quindi ho invitato tutti da me. Ho chiamato il comandante e in un quarto d’ora eravamo pronti a tavola, in 12 persone. Al mio amico dissi che non si può avere un 60 metri e non poter mangiare lo spaghettino alle 4:00 di notte”.
Un altro aneddoto?
“Una volta ho mangiato a bordo di un Custom Line Navetta 33 Crescendo nei piatti di carta, con le posate di plastica da buttare. Avrei voluto morire. A bordo delle mie barche non mancava mai il vino: se tu inviti un ospite a bordo deve star bene, altrimenti non invitarlo, non è obbligatorio. Sono stato ospite di armatori che fissavano la colazione alle 7.30 perché poi l’equipaggio avrebbe dovuto fare altro”.
Qual era la regola a bordo delle sue barche?
“Ne ho sempre avuta una: ognuno è libero di fare ciò che vuole. La colazione era servita dalle 8:00 alle 11:00, chi voleva poteva chiamare l’equipaggio e farsi portare in spiaggia o isolarsi. Il mio motto era ‘fate finta di essere in albergo e fate quello che volete’. Non si può pretendere che l’ospite debba fare quello che vuole l’armatore”.
Essere armatore l’ha aiutata nel suo lavoro?
“Navigare e usare le barche è stato importante per capire cosa funzionava e cosa no. All’inizio navigavo con una barca di legno che mi dava problemi e mi ha spinto a essere molto rigido nelle questioni tecniche e a cercare soluzioni per rendere le barche più affidabili e resistenti. Un avvocato usa la barca tre mesi l’anno ed è importante renderne l’utilizzo facile per tutti”.
Uno dei segreti del suo successo?
“I rapporti umani sono fondamentali. Non volevo essere solo un venditore, ma un consulente e un amico per i miei clienti. Volevo conoscere i loro hobby e passioni per creare un legame. Conosco un imprenditore italiano che mi faceva telefonare solo dalla segretaria e lo stesso quando dovevo chiamarlo io. Al contrario, Muhtar Kent, che è stato a.d. di Coca-Cola per anni, quando aveva un problema mi chiamava personalmente. Questi sono i rapporti.
Anche quando sorgevano problemi?
“Ero il primo a telefonare al cliente per scusarmi. Quando vendevamo una barca, mio fratello o io mandavamo al cliente una lettera scritta a mano su carta intestata personale, non aziendale. Anche grazie a questo Ferretti aveva una fedeltà al marchio del 95%”.
Quindi la maggior parte dei clienti tornava.
“Sì, e c’è una differenza enorme tra vendere una barca a un tuo cliente o a uno sconosciuto, nel primo caso è molto più semplice: conosci benissimo il modello che ti dà indietro e se ha bisogno di lavori li fai velocemente, lo puoi vendere o prestare a un altro cliente in attesa del suo yacht in costruzione, sai se è un buon pagatore o meno, conosci le sue abitudini”.
Da dove viene la fedeltà al marchio?
“Ho sempre creduto che il miglior servizio che si possa offrire è quello di non doverlo dare, il che è impossibile, ma ci ho provato. E per limitare il servizio bisogna lavorare sulla qualità, è l’unica strada. Ci sono armatori che comprano barche esteticamente meno accattivanti ma che non danno problemi o da cantieri riconosciuti per il servizio di assistenza”.
Cosa non mancava nelle sue imbarcazioni?
“Ero attento alle esigenze delle signore e avevo convinto anche l’ufficio tecnico. Tutti pensano che siamo noi uomini a scegliere il modello, ma non è così. La donna è determinante, così come la funzionalità della barca”.
Lei ha anche vinto il Mondiale Offshore nel1994. Cosa le ha insegnato quell’esperienza?
“L’importanza del team, anche se tutti pensano alla tecnologia o alla tecnica. La capacità di lavorare insieme come una squadra: ogni membro del team, dall’autista del camion al capo meccanico, ha un ruolo fondamentale. Un errore da parte di uno qualsiasi dei membri del team può essere fatale”.
Nel suo museo c’è una tabella con tutti i modelli progettati e per ognuno gli scafi venduti, in totale sono 5.215. A quale rimane più legato?
“Al Ferretti 68. Con questo modello abbiamo inventato la cabina armatoriale full beam a poppa invece che a prua, come si faceva sempre. Aveva gli oblò panoramici e il letto aggirabile, tutta un’altra cosa”.
Con il Mochi Long Range del 2005 siete stati dei precursori della propulsione elettrica. Come nacque quell’idea?
“Ero ormeggiato a Saint-Tropez di fronte al Café Sénéquier e stavo gustando un cappuccino con brioche quando lo yacht di fianco accese i motori per uscire, affumicandoci. Avrebbe potuto almeno tirarsi fuori con le cime e accenderli a una volta arrivato a metà nave. In quel momento pensai che la possibilità di uscire in elettrico da un porto fosse un segnale di rispetto per il vicino. Ma c’è anche un altro problema, oggi maggiore rispetto al passato”.
Quale?
“Una volta chi comprava la barca era un signore vero, adesso non è più così”.
Qualità e Made in Italy, due aspetti interconnessi della nostra produzione.
“Il Made in Italy è un ottimo biglietto da visita per entrare nei mercati, ma dura una stagione, se non hai qualità sei morto. Chi approfitta del momento favorevole per abbassarla poi se ne pente. La qualità è alla base di tutto e si paga. Senza di questa, il mercato si ferma”.
Come andò l’avventura nel mercato cinese?
“Sono stato uno dei primi a esportare le barche in Cina, al posto della cabina armatoriale volevano la sala per il karaoke. Dopo aver venduto il gruppo ai cinesi, durante un salone di Cannes il nuovo manager mi disse ‘Sig. Ferretti venderemo moltissime barche in Cina, dovremo triplicare la produzione’. Un attimo dopo ho visto passare due ragazze cinesi con l’ombrellino per ripararsi dal sole, le ho indicate e ho risposto ‘Ecco una delle ragioni per cui noi in Cina non venderemo centinaia di barche’. Non c’è la cultura del sole. Se da bambino non ti hanno portato al mare è difficile approcciare la barca”.
E quella negli Stati Uniti?
“Andai per la prima volta ospite di Caterpillar e mi fecero visitare decine di marine e il cantiere Bertram, che all’epoca era una potenza. Capii che la loro cultura nautica era molto diversa, sembrava una missione impossibile, si vendevano solo fisherman per battute di pesca in giornata, non avevano neanche l’àncora. Poi mi dissi ‘Ma vuoi che non troviamo qualcuno che voglia dormire una notte in rada o andare in crociera alle isole Bahamas?’ È un mercato che dovevamo provare e abbiamo avuto la fortuna di arrivare nel momento in cui gli americani hanno iniziato un po’ a lasciare la pesca e usare la barca in crociera e con uno stile più ludico. Negli anni è un mercato che ci ha dato grandi soddisfazioni”.
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