Camilla Rothe, la comandante trentenne al timone di un 44 metri che predica serietà e sicurezza
In questa intervista a SUPER YACHT 24 spiega perchè “l’industria nautica vive una grande sfida dal punto di vista del training generale dei comandanti”
Camilla Rothe è un comandante di sailing yacht. Italo-inglese, si trasferisce in Italia a 16 anni. Cresce con la passione della vela e diventa presto esperta. Mentre si trova in banchina entra in contatto con il suo primo datore di lavoro che le offre un imbarco come marinaio. Oggi, a soli 30 anni, è comandante di un sailing yacht di 44 metri. Nell’incontro con SUPER YACHT 24 offre un quadro senza sconti del mondo della nautica.
Comandante, lei ha avuto diverse esperienze su imbarcazioni Perini navi. Non possiamo non chiederle un’opinione su quanto successo al Bayesian…
“Nella mia esperienza principale con un Perini, ho lavorato per l’armatore sia a bordo sia presso il cantiere Perini a Viareggio, esperienza quest’ultima che mi ha permesso di conoscere alcune dinamiche di cantiere. A mio avviso, l’incidente del Bayesian rappresenta il culmine di diverse problematiche. Finché non avremo una perizia, non potremo determinare cosa sia andato veramente storto. Tuttavia possiamo avanzare alcune considerazioni.
La rottura di un singolo componente non dovrebbe di per sé compromettere la sicurezza di un’imbarcazione. Quando si verifica un incidente significa che più livelli di sicurezza sono stati compromessi. Se un’imbarcazione affonda significa che si sono verificati diversi eventi sfortunati, con il risultato di un incidente estremamente grave e raro. Le navi Perini sono progettate con numerosi livelli di sicurezza. Anche se singolarmente i sistemi prototipo possono per loro natura presentare delle vulnerabilità, l’allineamento di tali “buchi” è rarissimo. Si tratta di yacht complessi che richiedono una conoscenza approfondita dei sistemi sia di utilizzo ordinario sia di backup. Personalmente amo molto le particolarità degli yacht Perini. Le competenze richieste a un comandante sono vastissime; c’è quindi bisogno di propensione e passione per il lavoro per maturare competenze specializzate per poter gestire la complessità tecnologica, sempre più presente negli yacht moderni. Anche questo può costituire talvolta un fattore di rischio importante, soprattutto in situazioni di emergenza”.
Uscendo dal Bayesian: c’è dunque un problema generale di preparazione dei comandanti?
“Il ruolo del comandante richiede molte competenze: di natura legale (a livello nazionale e internazionale), di navigazione e di meteorologia, di carattere tecnico e di manutenzione, di sicurezza e stabilità, di marineria incluso search & rescue, di procedure d’emergenza, di comunicazione radio e satellitare, di manovra, di protezione ambientale e, non ultime, di leadership e servizio al cliente incluso quello di agente di viaggi! Bisogna riconoscere che il dover avere competenze così vaste, non rende possibile essere specializzati in ogni aspetto. L’industria nautica vive una grande sfida dal punto di vista del training generale dei comandanti e rispetto alla preparazione specifica necessaria. Oltre all’evoluzione tecnologica, anche la gestione del personale e’ molto diversa e in continuo cambiamento. La formazione di un comandante comporta un equilibrio delicato tra quanto si può realisticamente investire economicamente e in termini di tempo per la propria formazione e quanto sarebbe ottimale. La formazione nello yachting è inoltre, nella maggioranza dei casi, a carico del personale. Già la sola formazione obbligatoria può raggiungere costi molto elevati: in Inghilterra raggiunge facilmente i 40.000 euro. Personalmente partecipo anche a formazione oltre i corsi obbligatori, e riconosco che oltre ai costi dei corsi vanno aggiunti quelli di viaggio, alloggio e ferie dal lavoro.
La natura di ‘micro-azienda’, dato che ogni yacht è un’azienda distinta e raramente esiste la flotta, limita le possibilità di crescita professionale del personale all’interno di quella realtà. Questo porta a contratti brevi, e scoraggia anche i datori di lavoro a investire sul personale sul lungo periodo”.
Nel caso accada qualcosa c’è però il problema della responsabilità: com’è possibile che non sia avvertito?
“E’ certamente tenuto in considerazione. Il lavoro di bordo consiste nella costante ricerca di un equilibrio tra l’offerta di un buon servizio e il rispetto delle norme di sicurezza e dell’ambiente marino, che a volte può essere percepito come un limite al divertimento degli ospiti. Ad esempio, a volte, viene richiesto di imbarcare più persone del consentito. Alcune richieste, che a volte inconsapevolmente richiedono un’infrazione delle norme, quando accumulate, possono essere complicate da gestire, soprattutto dove le normative hanno ‘aree grigie’. Andare per mare, mentre si offre un servizio di hotel e viaggio, significa effettuare costantemente una valutazione dei rischi ‘non scritta’, con numerose considerazioni e fattori. Le capacità di giudizio di un comandante costituisce quindi un aspetto molto importante.”
Anche i cantieri hanno la loro parte di responsabilità…
“Anche i cantieri navali sono sotto pressione dal lato commerciale e dal lato regolamentare. La costruzione di uno yacht permette al cliente finale scelte e modifiche molto personali che possono essere difficili da regolamentare o testare, e quindi possono compromettere l’operatività e, appunto, la sicurezza dell’imbarcazione. Questo è un effetto collaterale della ‘iper-customizzazione’: un fattore che rende il mondo dello yachting così speciale e non equiparabile a nessun’altra industria, quindi da apprezzare, ma da gestire con cautela.
Consideriamo infine che anche gli enti di controllo sono privatizzati, e quindi soggetti a fattori economici e di guadagno, oltre al controllo degli standard”.
Il mercato della nautica privilegia troppo gli interessi degli armatori?
“Gli armatori costituiscono il cliente finale, quindi i loro interessi sono alla base dell’industria. La chiave qui è nel riconoscere che assicurare la loro sicurezza, e gestire le attività in maniera professionale, è la definizione assoluta di ‘fare i loro interessi’. Questo sia per evitare tragedie, che per evitare piccoli imprevisti durante l’utilizzo, oppure evitando costi imprevisti grazie a una buona manutenzione preventiva”.
Come si può quindi migliorare questo delicato equilibrio?
“È ovviamente un processo complesso. Bisogna riconoscere che ci sono già alcuni tentativi in atto molto validi, per esempio nuove iniziative formative promosse dai cantieri e dalle associazioni di categoria. Ci sono associazioni che raccolgono dati su incidenti o ‘near miss’, e li diffondono per evitare che si ripetano errori. Mi auguro che si arrivi a una vera e propria strategia comune. Migliorare la conoscenza e l’accessibilità all’industria, insieme a una migliore formazione del personale di bordo, può portare grandi risultati.
Anche i cantieri che, avendo vissuto una crescita e un’evoluzione rapidissima degli yacht, stanno cominciando a instaurare processi da grandi aziende. In ogni realtà si può lavorare per meglio strutturare la collaborazione tra reparti e introdurre controlli di standard qualitativi sempre più alti”.
Questa fase di boom e, purtroppo, anche la recente tragedia, hanno contribuito a far conoscere un po’ di più questo mercato e forse si può sperare in un miglioramento?
“Assolutamente: i numeri sono in aumento, l’industria comincia a essere più strutturata, e comincia a essere introdotta come materia di studio negli istituti nautici. L’industria è molto giovane, ma vedo che gli interessi ci sono per lavorare verso standard qualitativi sempre più alti e percorsi di crescita professionali più accessibili e standardizzati. Dobbiamo sfruttare questa occasione per stimolare ancor più il miglioramento”.
Quali altri aspetti andrebbero migliorati?
“Ho avuto modo di notare che la percezione della professionalità di un comandante non è facilmente misurabile. La valutazione del cliente finale è, giustamente, dipendente dalla vacanza trascorsa: dal servizio ricevuto e dalle emozioni che un equipaggio può regalare nell’offrire una vacanza su uno yacht. La sicurezza e le tecnicità che sono dietro, non sono visibili fino a che qualcosa non va storto. È comprensibile, ma va tenuta in considerazione la difficoltà di monitorare gli standard di bordo e migliorare la formazione di conseguenza”.
Arriverà mai il momento in cui l’armatore dovrà avere pretese giuste nei confronti dell’equipaggio?
“In una delle mie esperienze più sfidanti, alla mia richiesta di necessità di riposo per l’equipaggio, un armatore mi rispose che parlando di orari di riposo, non avrei fatto carriera, non considerando che la mancata applicazione delle normative sul riposo dell’equipaggio rende comunque difficile il recupero fisico e psichico mettendo, quindi, a rischio la sicurezza di tutti. In situazioni del genere il mio lavoro è nel dimostrare che i limiti che impongo sono negli interessi del cliente finale, anche se a volte, nell’immediato, può sembrare un limite alla sua vacanza. Con il giusto supporto tra tutte le parti del settore, sono sicura che queste cose diventeranno accettate come ‘normalità’ ”.
Come si gestisce la pressione psicologica che un armatore può esercitare sul comandante per ottenere il più possibile dall’equipaggio?
“È una vera sfida! Il continuo contatto con armatori e ospiti, quando si sta per lunghi periodi lontani da casa senza poter staccare mai la spina, determina un notevole stato di stress che viene totalmente compresso e mai esposto. Per gestire meglio la situazione, ho imparato a pianificare per vari scenari all’inizio della stagione, non cedendo su alcuni aspetti essenziali come ad esempio il rispetto del riposo fra i turni, il rispetto di certi standard di sicurezza, e l’attenzione verso l’ambiente marino. Questo modo di operare non è ancora culturalmente molto diffuso ma, come comandante, ritengo che la sicurezza di tutti debba essere la priorità”.
Lei ha conseguito i suoi titoli in Inghilterra e lavora prevalentemente in Italia: quali differenze ritiene ci siano tra i percorsi di formazione nei due paesi?
“In Inghilterra il processo per ottenere i titoli di comandante è più standardizzato a livello burocratico. C’è un percorso ben definito in termini di corsi da seguire e, sebbene questi non siano per nulla economici, hanno tempi di conseguimento relativamente rapidi. In Italia, il processo è decisamente più complesso e frammentato. Non esiste un iter chiaro e definito, esiste un sistema di corsi ed esami la cui organizzazione varia a seconda delle diverse Capitanerie di porto. Dal punto di vista qualitativo direi che i titoli possono essere considerati sostanzialmente equivalenti, tanto che, quando ho dovuto convertire il mio titolo inglese in quello italiano, al di là di alcuni ritardi di tipo burocratico, è stato ritenuto pienamente valido ed equipollente.
In passato i titoli per il diporto italiani si ottenevano sulla base dell’esperienza a bordo, auto-certificata. Ho molto rispetto nei confronti di marittimi con decenni di esperienza alle spalle, ma bisogna riconoscere che il lavoro è evoluto a una rapidità esponenziale. Il comandante nel suo ruolo riceve poco feedback, quindi, affinché rimanga autocritico e aggiornato la sua partecipazione ai corsi è fondamentale”.
Ma non esiste un confronto tra voi? Da quello che sappiamo oltre alle riunioni associative il confronto è continuo grazie alle chat condivise…
“Si certamente, anche se non avviene sempre in modo strutturato. Oltre alle riunioni associative il confronto è continuo grazie a gruppi di chat digitali. Detto ciò, trovo spesso che in questi scambi ci sia una resistenza a essere totalmente aperti per paura di essere giudicati negativamente. I corsi, anche se spesso troppo brevi, permettono di trasmettere competenze solide tra colleghi”.
Dalle sue parole risulta chiaramente la sua forte impostazione in tema di sicurezza. C’è qualcosa nella sua esperienza che l’ha incentivata?
“Agli inizi del mio percorso ho lavorato su barche scuola inglesi di una fondazione no-profit che insegnava a navigare a ragazzi disabili o provenienti da contesti disagiati. La gestione proveniva dall’alto e aveva regole e protocolli molto rigidi che prevedevano programmi precisi e determinate azioni in base ai comportamenti dei ragazzi, attività a terra e sistemi disciplinari oltre che un’attenzione estrema alla sicurezza. La fondazione tra l’altro, non avendo scopi di lucro, era scevra da conflitti di interessi: per me è stata una grandissima scuola. Quella situazione non è traslabile nel nostro mondo, più orientato al business, ma osservandola si può comunque apprendere tanto. È stata un’esperienza che mi ha dato una solida base in termini di principi e di competenze gestionali”.
Lei è comandante da sette anni. Come giudica la sua esperienza e quali sono i suoi programmi futuri?
“Nel corso degli anni ho ricoperto ruoli di crescente responsabilità diventando prima ufficiale e poi comandante su yacht di grandi dimensioni. Quello che ho sempre fatto, anche quando già ricoprivo il ruolo di comandante, è stato cercare di prepararmi sempre a nuove potenziali sfide: ogni volta che mi sono trovata a gestire un’imbarcazione più grande, mi sono affiancata per qualche tempo come primo ufficiale ai comandanti di barche simili a quelle che avrei dovuto poi guidare io. Attualmente, pur ricoprendo il ruolo di comandante, sto seguendo la vendita di un’imbarcazione di 44 metri, in attesa di una nuova opportunità lavorativa che mi tenga più vicina a casa. Non sento più il bisogno di girare il mondo come in passato. Parallelamente sto conseguendo un titolo in perizie navali con l’obiettivo di lavorare sempre più a terra, magari nel settore della costruzione e del refit, due ambiti che mi appassionano molto. Si tratta di attività che ho già sperimentato sulla barca Perini ‘Dahlak’, di cui ero appunto comandante. In quel caso si è trattato di un importante progetto di riverniciatura e manutenzione dell’alberatura e del sistema velico nonché refit totale dell’impianto di comunicazione e audio/video. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con il cantiere Lusben di Viareggio. Si è trattato di un lavoro impegnativo e ‘senza reti di sicurezza’ ma, grazie all’ottimo team coinvolto e alla fiducia accordatami, è andato tutto secondo i piani nel rispetto di tempi e budget. Questa attività ha concluso un lungo periodo di circa 4 anni e mezzo trascorsi in giro per il mondo; un periodo davvero bello, intenso e impegnativo. Successivamente, ho preferito un incarico meno gravoso, ma altrettanto stimolante. Ora il mio obiettivo è dedicarmi, appunto, maggiormente al lavoro di surveyor e di formatore. Dall’età di 18 anni sono istruttrice di vela (Rya) e ora anche istruttrice Imo. In ambito formativo, il mio obiettivo principale è quello di trasmettere conoscenze concrete e forte motivazione a lavorare in sicurezza e con professionalità ai futuri comandanti, interiorizzando il ‘perché’, contribuendo quindi a un’evoluzione sempre più sicura e professionale, e a una cultura sempre più ‘positive’ ”.
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